La storia di Luigi Cipriani
Raccontata dalla moglie Michela e altri compagni
Nel suo ambiente, Luigi Cipriani era "Cip": a volte Cippone, per distinguerlo da un Cippino che aveva lo stesso cognome, ma era più magro; altre volte Marx o Barba. Colpiva la fantasia quella figura da gigante corrucciato, con la macchia scura della barba e dei capelli arruffati che lisciava in continuazione, inutilmente, con le dita, gli enormi piedi: per una decina d'anni è andato in giro con una scarpa tagliata per via di un'unghia incarnita che si guardava bene dal farsi curare, e aspettava guarisse da sola. Aveva la faccia bella, la voce calda dei meridionali: sembrava un arabo, ma con la parlata milanese, concisa e piena di immagini. Metteva insieme in modo tutto suo caratteristiche che si è abituati a dissociare. Arrabbiato e dolce, impetuoso e razionale, positivo nella politica e fatalista nell'esistenza fino a trascurare le più elementari cautele, sembrava un vecchio scocciato della vita e un momento dopo giovanissimo, per un suo fare irruento o giocherellone e quell'essere intatto, assoluto.
Assoluto, soprattutto, nella scelta di campo: per gli operai, i lavoratori, la classe cui apparteneva per nascita e che non dimenticava in nessuna situazione. Era un riferimento costante dal quale lui ha ricavato uno stile di vita coerente ed essenziale; un modo di intendere, e fare, politica tutto centrato sul riscatto della sua classe ("per te l'economia-mondo e il bilancio familiare di una lavoratrice o di un lavoratore erano la stessa cosa", hanno scritto i suoi compagni di Milano in un bel ricordo pubblicato dopo la sua scomparsa) e sulla denuncia mai improvvisata ma studiata, metodica di meccanismi sociali che si ammantano di progresso ma sviliscono le persone e riproducono perennemente il privilegio.
Nella passione politica ma anche nel carattere e fisicamente, Luigi sembrava il sosia di un celebre nonno nato a Scafati, nel salernitano, nel 1881: anche lui di nome Luigi, anche lui soprannominato "il Barba": solo, la barba era tagliata diversamente, a punta, come usava una volta. Di lui parla Marco, cugino di Luigi, giovane dirigente della Filcams-Cgil.
A quindici anni il nonno era già socialista e, poco dopo, segretario della sezione giovanile del Psi di Torre Annunziata. Nei primi anni del secolo organizzò la Fiom all'Ilva, dove lavorava come abbozzatore del treno ferro, e in tutta la Campania. Fu alla testa delle lotte che portarono al riconoscimento del riposo settimanale e nel 1909 organizzò una grande manifestazione contro la fucilazione dell'anarchico Francisco Ferrer. Durante la grande guerra, passò dei guai e fu retrocesso di grado per aver accusato gli ufficiali di stare nelle retrovie anzichè in prima linea, con la truppa. Nel dopoguerra, come responsabile per la Fiom dell'Italia meridionale, organizzò lotte durissime, scioperi che talvolta duravano mesi, per ottenere la riassunzione di lavoratori licenziati. Firmò, insieme a Buozzi e altri, la legge delle otto ore. Con l'avvento del fascismo, benchè invitato dai compagni ad espatriare, volle restare in Italia, anche per provvedere alla famiglia e patì diverse volte il carcere. Fu alla testa del movimento di liberazione, quindi continuò l'attività sindacale a Saronno, poi a Milano dove si era trasferito con la famiglia, fino all'ultimo. Del nonno si racconta anche che rinunciò all'eredità, assai consistente, del padre per ottenere dai suoi di seppellire la sorella, morta giovanissima, col funerale civile. Che ridusse a miti consigli i mafiosi di Scafati, autori di minacce e pestaggi di compagni, in modo singolare: affermò in un comizio di aver commissionato ai suoi amici anarchici la costruzione di quattrocento bombe e indirizzò al capoclan un messaggio del tipo "provateci ancora e vedrete che botti". Il destinatario, afferrato il concetto, organizzò un incontro pacificatore, nel quale promise che le intimidazioni sarebbero cessate: ma nonno Luigi rifiutò di stringergli la mano, perchè era un servo dei padroni.
I suoi tredici figli sono quasi tutti compagni, socialisti o comunisti: come Lenin e Libera Russia, come Alda, Amedeo e Renato, che lavorava a Scienze Politiche e quando è andato in pensione è stato salutato da una gran festa col coro dell'Internazionale; come Alceste, il papà di Luigi, commerciante fallito perchè non era capace di farsi pagare (aveva un negozio di vestiti e non sapeva rifiutare la merce a chi ne aveva bisogno), poi operaio dell'Azienda tramviaria, dove è stato un attivo quadro sindacale di base. Quanto ce l'aveva con Craxi! non poteva parlarne senza diventare paonazzo. Quando è morto, ha voluto un funerale con le bandiere rosse: quelle di Democrazia proletaria, non del suo partito. La mamma di Luigi era Maddalena, milanese, sarta: anche da questo ramo c'è stato un nonno sindacalista, coetaneo dell'altro, che ha lavorato con Buozzi. Poi c'era una sorellina, Marinella.
Luigi è nato nell'estate del 1940. Ha passato l'infanzia in una casa popolare, con un gran cortile, dove tutti si conoscevano. Poi c'è stata la scuola da perito meccanico, le prime partite di rugby, l'assunzione alla Pirelli Bicocca, a diciannove anni. Fu un trauma la fabbrica, per quel ragazzo irrequieto e insofferente di tutto. Erano i primi anni sessanta e nelle aziende l'atmosfera era irrespirabile soprattutto per i giovani scolarizzati, meno propensi di quelli che li avevano preceduti ad accettare gerarchie e disciplina. Luigi ventenne la notte sognava, in un incubo senza fine i capetti, i pranzi aziendali obbligatori per gli impiegati, i panettoni natalizi distribuiti dal caporeparto: un orribile panettone sghignazzante con la faccia di Leopoldo Pirelli lo inseguiva per costringerlo a dire "grazie". Fu ricoverato per esaurimento nervoso in una struttura ospedaliera condotta con metodi medievali dove dei medici che avrebbero fatto meglio ad occuparsi d'altro lo trattarono con dosi da cavallo di psicofarmaci provocandogli la distruzione delle cellule pancreatiche e una forma di diabete che diversamente non avrebbe mai avuto. Girerà al largo dai medici per tutta la vita. Allora superò la crisi grazie a un fisico e una reattività fuori dell'ordinario, buttandosi a capofitto nel rugby: un modo razionale, scientifico, di dominare la propria inquietudine. Giocava ed era bravissimo nella squadra milanese Sempione che mieteva successi sotto la guida del conte Cacciadominioni, un aristocratico eccentrico e mecenate che Luigi ricorderà spesso come l'unica persona cui abbia mai obbedito.
Dopo qualche anno però i successi -che l'avevano portato a giocare in nazionale- non bastarono più a fargli dimenticare l'inferno della fabbrica dove lui, come cronometrista, doveva misurare i tempi agli operai. Ancora l'angoscia, ancora gli incubi. Quella volta lui ne uscì per sempre leggendosi, nelle notti senza sonno, Il capitale di Carlo Marx. Tutto, senza perdersi una riga: ci trovava la sua strada analizzando, insieme alla storia, le cause della propria angoscia, che si ricollegava così chiaramente all'alienazione della sua classe. Io credo, anche se non ero ancora con lui, che in quella lunga crisi, e nel suo modo singolare di superarla, Luigi diventò veramente se stesso, quell'affascinante insieme di razionalità e umanità che l'ha reso così unico. Capirà sempre che il riscatto di classe non può essere pensato che insieme al vissuto della gente, capirà il "partire da sè" delle donne, così ostico a tanti compagni, l'angoscia e la ribellione esistenziale dei giovani e di chiunque.
Era allora il sessantotto, il sessantotto della rivolta antiautoritaria che dilagava dalle scuole nelle fabbriche anche grazie all'ingresso massiccio, dovuto a una congiuntura favorevole, di operai e tecnici giovani, acculturati e muniti di spirito critico nei confronti dei valori dominanti. Alla Bicocca come in altre fabbriche questi nuovi operai e tecnici, immessi nella produzione, incontravano altri operai, altri quadri, militanti del PCI e del sindacato che andavano maturando posizioni critiche nei confronti delle loro organizzazioni. Da quell'incontro nacque nel 1968 il CUB Pirelli, subito dopo la firma di un contratto nazionale del settore gomma estremamente al ribasso, che non recepiva le istanze dei lavoratori.
Del CUB Pirelli, e della parte che vi ebbe Luigi, parla Carlo Rutigliano, anche lui operaio della Bicocca e protagonista delle lotte di quegli anni, scusandosi perchè proprio non riesce a chiamarlo Luigi ("per noi alla Pirelli lui è sempre stato Cip e basta, io continuo a chiamarlo così").
Il CUB - spiega Carlo - sviluppava un intervento costante che partiva dai temi di più immediato interesse per i lavoratori come il salario, il cottimo e le qualifiche e giungeva a una critica complessiva dell'organizzazione del lavoro in tutti i suoi aspetti, dai rapporti gerarchici alla nocività; rivendicava la partecipazione diretta dei lavoratori attraverso i gruppi omogenei e i delegati di reparto. Cip entrò nel CUB l'anno successivo, immediatamente con un ruolo dirigente. Sviluppava un'analisi precisa, continua e i suoi interventi lasciavano di solito senza parole, perchè erano così profondi che restava poco da dire. Sapeva collegare e prevedere le mosse del padrone con una precisione impressionante. In lui ho sempre notato due atteggiamenti, uno di estrema disponibilità verso i lavoratori con cui dialogava, uno molto più esigente rispetto ai compagni "addetti ai lavori". Poco incline ai compromessi, schietto sulle cose da dire -chi gli era antipatico gli era antipatico, e basta- aveva un'umanità, una presa sui lavoratori unica, anche se c'erano in fabbrica e nel CUB compagni altrettanto preparati e di pari valore come Mario Mosca, De Mori, Salvatore Ledda. A quel tempo, Cip lavorava nell'officina centrale e si occupava di tempi e metodi. Ma più che organizzare i tempi del padrone, organizzava gli scioperi. In quel reparto, 250 persone almeno, erano confluiti molti giovani che avevano fatto la scuola aziendale, intitolata a Piero Pirelli. Nelle intenzioni dei dirigenti chi usciva di lì doveva avere chiaro come il padrone intendeva organizzare il lavoro in fabbrica: ma, dati i tempi, l'istituto sfornava soprattutto giovani tecnici desiderosi di usare le conoscenze acquisite per contrastare l'ideologia padronale. In officina, passavano sotto le "istruzioni" di Cip che faceva il resto, fornendo loro strumenti politici, teorici e pratici. Visti i risultati, l'istituto venne chiuso per diversi anni.
Quando fu eletto il consiglio di fabbrica, la sinistra rivoluzionaria vi portò più di quaranta compagni, fra quelli di Lotta continua e del CUB su un totale di cento e fra essi, naturalmente, c'era Cip. Questo fatto gli diede anche una copertura rispetto alle immancabili rappresaglie.
Fra le varie denuncie che si prese dalla direzione aziendale ne ricordo una per istigazione a delinquere, violenza privata e non so quant'altro, a causa di un picchetto "duro" come si diceva allora (di quelli cioè dove gli scioperanti entrano nei reparti e cercano di convincere, magari senza troppa cortesia, i crumiri ad uscire). Di violenza proprio non ce n'era stata ma con la sua sola presenza -diceva l'atto d'accusa- Cipriani eccitava gli animi alla rivolta e alla distruzione. Fortunatamente quelli erano tempi in cui le rappresaglie, anzichè intimorire, sortivano l'effetto opposto: alle udienze in tribunale si presentavano centinaia di persone, si organizzava la mobilitazione in fabbrica, si imponeva il ritiro delle denuncie e così avvenne in quel caso. Guai a toccargli il Cip, agli operai di Bicocca! La direzione cambiò tattica e gli assegnò un pressochè inesistente lavoro d'ufficio per impedirgli di girare nei reparti ad "eccitare" gli operai. Venne chiuso in una specie di gabbiotto di vetro, guardato a vista dal caporeparto. A Cip bastava però un attimo di disattenzione, una breve assenza di quest'ultimo per sfuggirgli. Quando non ce la faceva utilizzava il tempo scrivendo volantini o usando il telefono interno per scopi non proprio aziendali. Aveva anche una sua rete di "talpe" negli uffici della direzione, segretarie o impiegati che senza scoprirsi, simpatizzavano nascostamente col CUB e lo informavano in anticipo delle mosse del padrone.
Come molti altri compagni dei Comitati di base, Cip aveva aderito ad Avanguardia operaia, l'organizzazione della sinistra rivoluzionaria che sviluppava l'intervento più penetrante nelle fabbriche.
La base operaia di AO -ricorda Emilio Molinari, oggi parlamentare verde, allora lavoratore dirigente del movimento dei CUB e di quell'organizzazione- non era l'operaio-massa, quello che veniva magari dal sud pieno di rabbia ma che poi si fermava alla rabbia, alla consapevolezza del proprio sfruttamento; erano invece i giovani operai che uscivano dalle scuole pubbliche o aziendali dotati di conoscenze che davano loro strumenti diversi, che volevano capire i meccanismi della politica, crescere insieme e produrre un sapere collettivo. Cipriani rappresentava meglio degli altri questo strato sociale, protagonista di quel sessantotto milanese che è stato semplificato o rimosso, ed in realtà non è mai stato scritto. Era uno che non si accontentava delle analisi superficiali ma metteva in discussione ogni cosa, studiava le questioni economiche ed altre, apparentemente lontane dalla fabbrica senza mai perdere il riferimento ad essa, il collegamento con la sua classe.
La fabbrica, l'organizzazione, ma non solo. Quelli erano anni di militanza piena e c'erano tante lotte, tante situazioni da sostenere. Quando non bastava il giorno c'era la notte. Delle "notti militanti" di lotta, ma anche di festa, sono rimaste memorabili quelle della Crouzet, un'azienda di sole donne sita allora in via Valcava a Milano, che il padrone voleva trasferire a Bergamo.
La Crouzet era diventata una bandiera per i Comitati di base e per Avanguardia operaia che sostenevano una battaglia forte contro i primi casi di deindustrializzazione della città -racconta Guido Visco, altro dirigente operaio "storico" espresso dal movimento dei CUB. Furono due anni di lotta dura, in cui costringemmo anche parte delle organizzazioni sindacali ad appoggiarci e che si concluse con una parziale vittoria: la fabbrica venne trasferita sì ma a Bollate e si ottennero adeguati trasporti per garantire la permanenza delle lavoratrici allora occupate. Nell'ultimo periodo -era il '72 o il '73- per mettere in difficoltà la multinazionale organizzammo un presidio continuo, notti e domeniche comprese. Le lavoratrici, anche se erano molto attive e generose, non potevano farcela da sole e i compagni di AO, a turno, sostenevano il presidio. La presenza di Cip era una garanzia che da quell'impegno non sgarrasse nessuno, e faceva sentire più sicuri se interveniva la polizia a sgombrare.
Ricorda bene uno di quegli sgomberi Renato Sacristani, allora studente della zona Bovisa, che con altri suoi compagni era stato assegnato al turno una notte in cui la polizia intervenne in forze.
... Era un periodo in cui non si facevano tanti complimenti. Ci schierammo all'angolo della strada per fermarli con i sassi, ma arrivò una staffetta trafelata : "ci stanno circondando". Iniziammo ad arretrare e a cercare una via d'uscita. Luigi, con la sua massa scura, rimase imperturbabile ad attizzare il fuoco del presidio. Qualcuno di noi gli gridò di scappare, quasi non avesse capito il pericolo. Si girò con calma e rispose come il gigante buono delle favole: "voi andate ma io non posso... non sarà mai che scappo da una fabbrica." La scena era surreale. La polizia avanzava piano, circospetta per i sassi che ogni tanto piovevano, noi indietreggiavamo egualmente lenti ed increduli e nel mezzo di quella piccola macchia, Luigi e i suoi compagni, gli operai che rimanevano fermi, in attesa del loro destino. Gli studenti, allora, si muovevano in straordinaria simbiosi con gli operai. Ma fino a quel momento per noi il mito della classe operaia era soprattutto un effetto libresco, che conoscevamo ma non era ancora nella nostra pelle... posso dire che la lotta ci aveva fatto trovare qualcosa di sconosciuto, una forza calma e sicura, cosciente dei propri compiti.
Dopo ogni sgombero, i compagni riorganizzavano il presidio e il blocco delle merci. Nelle notti tranquille invece, si discuteva e si cantava.
Quando c'era Cip la serata passava leggera - è ancora Visco che parla - perchè lui non era il solito dirigente che attaccava il pistolotto sul marxismo-leninismo, ma uno di noi con cui si poteva parlare di tutto, scherzare, giocare. Una notte di vera baldoria la passammo dopo la manifestazione dell'11 marzo (era ancora il '72): una grande manifestazione popolare indetta dalla sinistra rivoluzionaria contro il governo Andreotti e per dire forte che l'eccidio di piazza Fontana, del quale erano stati incolpati gli anarchici, era stata una strage di Stato. La manifestazione non era autorizzata e la polizia cercava di disperdere i compagni, che riuscirono a tenerle testa per ore, sfilando a tratti in corteo. Ricordo che incontrai Cip in via Legnano durante una carica e che lui aveva esaurito la scorta di sassi. Non sapendo cos'altro tirare, lanciò il suo mazzo di chiavi: che era bello pesante perchè, oltre alle sue, teneva le chiavi della sede. Dovemmo poi cambiare le serrature, per vigilanza! Era stata data l'indicazione tassativa che quella sera, e le successive, i compagni di AO non dovevano essere reperibili nelle loro abitazioni ma per lui, che non aveva più le chiavi, era una scelta obbligata. Quella sera, per festeggiare la riuscita della manifestazione, andammo tutti alla Crouzet: che era l'ultimo posto dove sarebbero venuti a cercarci, visto che c'era sempre il pericolo di un intervento della polizia. A quel tempo, ne facevamo di tutti i colori.
In quel periodo ho incontrato Luigi: rimanendone incantata all'istante perchè era talmente autentico da essere subito riconoscibile senza bisogno di molte parole e, soprattutto, di tempo. Ho spesso notato che faceva un effetto simile a molta gente, tanto che gli capitava di essere fermato per strada da persone che non l'avevano mai visto prima e che lo interpellavano familiarmente. "Ehi Barba, lo chiamarono una volta da una banchina -eravamo a Civitavecchia, in vacanza, in attesa del traghetto per la Sardegna- sei Carlo Marx? Vieni qui da noi, abbiamo proprio bisogno di un Marx!" Erano dei portuali, in agitazione per non ricordo cosa. Il tempo di avvicinarsi, ed era uno di loro; poco dopo, sapeva tutto sul porto di Civitavecchia e loro lo ascoltavano affascinati. Quella volta, i problemi dei portuali ci fecero perdere il traghetto.
Naturalmente, questo capitava con la "sua" gente; gli "altri", i borghesi, o semplicemente le persone integrate o conformiste, lo evitavano con cura meticolosa. Anche per loro, del resto, l'effetto era immediato e a lui, per ottenerlo, bastava un'occhiata (equivalente a un "girami al largo"). Aveva abolito dal suo frasario le parole inutili, e qualunque formalità: impossibile sentirgli dire un "grazie", "prego", "per favore" e simili. Quando parlava, era sempre per dire qualcosa di sostanziale; esprimeva solidarietà, simpatia o tenerezza più che con le parole, con fatti concludenti, o solo con questi.
Il suo primo regalo, per festeggiare il nostro incontro, fu un gran pollo arrosto: "sei troppo magra" diceva, si preoccupava che non mangiassi abbastanza. Chissà cosa sarei diventata, se gli avessi dato retta. Eravamo andati a vivere in una ex portineria di trentacinque metri quadrati sistemata alla bell'e meglio come appartamento, dove lui accatastava con metodo il suo archivio di giornali, cartelle e documenti in mucchi altissimi ('i miei mucchietti', li chiamava con amore) che aumentavano mese dopo mese e rendevano quasi impossibile circolare. Mi convinse a sposarlo anche se ero anarchica, dicendo "sono i piccolo-borghesi a non sposarsi, i proletari si sposano". Fu un matrimonio alquanto alternativo, con due anelli di acciaio inox fabbricati il giorno prima col tornio da un operaio della Pirelli il quale, forse pensando che la fidanzata gli somigliasse, mi fece un anello largo come una barca. D'altronde, lui era alternativo anche come marito: non chiedeva mai nulla. Del maschilismo aveva sviluppato solo l'aspetto più dolce, quello protettivo: questo era impossibile impedirglielo, ci restava troppo male. Aveva spesso atteggiamenti del genere con le donne, con chiunque gli sembrasse indifeso. Una sera -camminavamo sulla circonvallazione a Milano- rischiò una coltellata per difendere una donna mai vista da due tipacci che la stavano malmenando: li stese entrambi con pochi terribili pugni, poi girò i tacchi come niente fosse, intascandosi il coltello ('mi serve per tagliarci la frutta').
Nel '76 Luigi si licenziò dalla Pirelli per diventare funzionario a tempo pieno di AO (poi di DP, che nacque nel '78 dall'unificazione col Pdup e con altre frange della sinistra rivoluzionaria). La cosa fu contrastata in fabbrica dai compagni, che lo consideravano indispensabile. Cip non la pensava così: era convinto che, allontanandosi dalla fabbrica, gli altri, abituati a delegargli le cose più importanti, si sarebbero responsabilizzati maggiormente. Non ha mai voluto fare il capo, nè essere indispensabile: piuttosto, cercava di fornire ai compagni gli strumenti per agire in prima persona.
Cip funzionario è raccontato da Patrizia Arnaboldi, anche lei della direzione nazionale di DP. Patrizia veniva dal Pdup
Lo conoscevo però da prima, come lo conoscevano tutti i compagni di Milano, per le sue capacità politiche, per la vicenda Pirelli, perchè lo si vedeva dappertutto. Alle manifestazioni stava sempre davanti come a proteggerci: così immenso, con quella gran barba, proprio non si poteva non notarlo! e tutti lo chiamavamo con quel nome, Cip, che era un vezzeggiativo sulla sua immensità. Ricordo che prima dell'unificazione, quando tra le organizzazioni c'era conflitto, lui non era mai uno che aizzava: al contrario, nei momenti di tensione, riportava la calma, spesso con la sola presenza.
Per Patrizia l'esperienza di DP, con la confluenza su un progetto comune di tante storie diverse, ha significato anche il venir meno di quelle divisioni spesso primitive, una maturazione per tutti e una maggiore capacità dei compagni di capirsi anche umanamente.
Luigi era molto bravo, quando interveniva tutti si facevano attenti perchè dava sempre qualcosa con le sue parole. Di lui ricordo soprattutto il bisogno di studio, di continuo approfondimento, il fatto che insegnava agli altri a fare altrettanto, al di là dell'emotività, dell'essere contro. Aveva ragione: se sei solo contro, non vai lontano. Per un lungo periodo, pur facendo cose diverse -lui si occupava di fabbriche, io di scuola e cultura- dividemmo la stessa stanza. Lui non è che parlasse molto, più facilmente mugugnava. Era spesso imbronciato: non sopportava le cose fatte male, i lavori cominciati e piantati a metà, la disorganizzazione. Di solito, non esternava queste cose, ma le rimuginava a lungo e poi magari scoppiava tutto a un tratto, senza avvisaglie. Oddio adesso si arrabbia, si pensava quando lo si vedeva aggrottato, non sapendo se stava sedimentando l'incazzatura o era in fase finale. Nel primo caso se ne stava per i fatti suoi, o magari usciva improvvisamente da una riunione senza dire niente a nessuno. Nel secondo caso sbottava, ed erano guai! Una volta, mentre stavo seduta alla scrivania a leggere, ho visto arrivare a mo' di saetta -dietro il suo tavolo c'era la raccolta rilegata del Quotidiano dei lavoratori- due o tre volumi proprio sopra la mia testa. "Ma sei impazzito?". "Sono incazzato con una massa di deficienti". Poi come niente fosse si alzò, li raccolse, li rimise perfettamente in ordine negli scaffali e si rimise a lavorare tranquillamente. Io gli sono sempre stata affezionata perchè lui era uno vero, era uno che non aveva per mestiere la politica. Non era un funzionario di mestiere, era un uomo rivoluzionario, che è un'altra cosa. Con le sue rabbie, le sue cupezze, era sempre un uomo.
Le cose che facevano arrabbiare di più Cip erano l'approssimazione, la superficialità, la mancanza di comprensione dei problemi dei lavoratori. Non sopportava che il proprio lavoro, e quello dei compagni di fabbrica, fosse sottovalutato dall'organizzazione.
Una volta - racconta Arnaldo Monga, un altro compagno del Dipartimento lavoro - Luigi costruì, insieme ad alcuni compagni che lavoravano nei servizi di pubblica utilità, una piattaforma rivendicativa che conteneva dati e ragionamenti rilevantissimi e che poteva dare un grosso impulso alle lotte per l'occupazione a Milano: la Federazione non lo utilizzò. C'erano delle lacune, delle incapacità evidenti; c'era anche il fatto che lui volava dieci volte più alto degli altri, che continuavano a girare intorno ai problemi, mentre lui li sapeva superare. Ne restava continuamente deluso. Un'altra cosa che Cip non sopportava era la tendenza di molti compagni a portare tutta l'attenzione sui problemi sindacali, che lui riteneva giustamente fossero un aspetto delle lotte, magari importante, non l'unico. A volte, quando riceveva sollecitazioni a restare su questo terreno, sbottava: "guardate che col sindacato non si fa la rivoluzione, si fa col partito e la coscienza". Coi compagni lavoratori sbottava però benevolmente, perchè capissero cosa voleva dire. E aveva sempre la forza di rettificare quello che riteneva fosse un errore di impostazione.
Un esempio del metodo di lavoro di Cip è stato il contributo che ha dato ai compagni dell'Alfa Romeo per costruire quella realtà, sapendo legare il terreno della battaglia sindacale a quello della battaglia politica, perchè riteneva che solo così sia possibile elevare la coscienza dei lavoratori ed impostare piattaforme realmente alternative. Anche sulla vicenda della vendita dell'Alfa dallo Stato alla Fiat, e la concorrenza Fiat-Ford Cip diede un contributo forte. In prima battuta, per dimostrare che il deficit dell'Alfa era stato pianificato a tavolino, con precise scelte di politica industriale e finanziaria del gruppo dirigente talmente "sbagliate" da essere impensabile che fossero frutto di errori, da parte di esperti di mercato di quella levatura. In seconda battuta, per costruire insieme ai compagni della fabbrica una piattaforma che salvaguardasse le conquiste reali dei lavoratori e quindi la loro autonomia; poco importando -questo era il filo conduttore- chi in definitiva sarebbe diventato il padrone: perchè il padrone è il padrone, che si chiami Fiat o Ford.
La maggior parte del suo lavoro andò sprecata. Pesavano, sui lavoratori e sui compagni, le difficoltà indotte dalla deindustrializzazione e dall'attacco politico al movimento operaio, il generale decadimento culturale di quegli anni, pesavano le incertezze di un piccolo partito che, nonostante l'impegno di tanti bravi compagni, non andava molto al di là del "gruppo di resistenza" e non sapeva volare alto come avrebbe voluto lui. L'amarezza di Luigi aumentava, insieme alla convinzione di lavorare per niente, e alla sfiducia nei confronti del gruppo dirigente di DP. "Se non fosse per i compagni che ci credono ancora ci darei un taglio" mi diceva. "Siamo finiti, alla DC non fa neanche solletico un'opposizione così". Ma per i "suoi" operai nascondeva l'amarezza e riusciva a comunicare entusiasmo e voglia di fare. Nelle iniziative pubbliche, era sempre quello di prima: sapeva dare conoscenze e insieme certezza nell'iniziativa politica, trascinava la gente. Ricordo fra le altre un'assemblea sindacale a Milano, era l'85 o l'86, dove ha letteralmente "stracciato" un oratore del PSI che cercava di dimostrare come le lotte per la difesa del posto di lavoro, e certe posizioni classiste fossero superate, che i lavoratori in nome del progresso avrebbero dovuto guardare più lontano. "Non sono moderno, io- ha esordito Cip- non sono neanche vestito alla moda, come te", e lo mimava buffamente. Dopo un' analisi incalzante, con la quale dimostrò i guasti della politica di speculazione finanziaria dei grandi gruppi - il "progresso" craxiano - gli ha ricordato che gli operai hanno la brutta abitudine di mangiare, pagare l'affitto, talvolta di fare figli. "Ma non siamo moderni, noi". Lo ripeteva dopo ogni frase, come un ritornello. La gente rideva, applaudiva, i "modernisti" stavano zitti.
Per consolarlo delle delusioni politiche, i rari giorni in cui era libero cercavo di trascinarlo via da Milano. In questi casi lui bofonchiava continuamente per il caldo, i treni affollati, le attese, i discorsi insulsi che si sentono in giro e molte altre cose. "Perchè non ci racconti quante volte piscia tua sorella", ammutoliva la gente che ha l'abitudine di parlare ad alta voce per farsi sentire. Al ristorante, se gli portavano porzioni scarse, prendeva al cameriere il vassoio e si serviva direttamente. Io mi ci divertivo come una matta, soprattutto a guardare le espressioni intimorite che provocava. Per questo modo di fare, e per il fisico, fino a una decina di anni fa gli capitava a volte di essere scambiato, anzichè per Carlo Marx, per Bud Spencer. Una volta, al sud, fummo attorniati da un nugolo di ragazzini che volevano l'autografo. "Bud, mettece 'na firma". E lui a spiegargli che no, non era Bud. Non si convinsero e la sera, mentre stavamo seduti in piazza, arrivò il proprietario di un ristorante, tutto cerimonioso che, avvertito della presenza di Bud in paese, voleva invitarci a cena. Lui non gradì affatto la cosa! l'unica somiglianza che accettava era quella col Marx (oltre che col famoso nonno, si capisce). Andavamo più spesso in Toscana, perchè lui amava particolarmente la pittura italiana del Trecento e, a Siena o Firenze, passava ore a contemplarsela. "Ti sei dato alla spiritualità?", lo prese in giro un compagno che avevamo incontrato una volta, per caso, davanti alla Maestà di Duccio, a Siena. "Sono un materialista storico, non un materialista stupido". Luigi aveva gusti raffinatissimi, e sapeva dipingere. Ma non ne aveva mai il tempo.
Con le elezioni del 1987, DP portò in Parlamento otto deputati e fra di essi Cip e Patrizia Arnaboldi, eletti a Milano: lui uscì grazie ai voti della cintura operaia, in particolare di Sesto. Elessero come capogruppo Patrizia. Lei racconta che il primo giorno erano tutti curiosi di vedere se Luigi si sarebbe presentato con la cravatta regolamentare.
Non l'aveva naturalmente, però era molto elegante, con una giacca - mai visto prima con una giacca- e una camicia azzurra. "Luigi sei splendido!", gli ho detto. Lui ha risposto con uno dei suoi mugugni, però mi è sembrato un mugugno dolce, era lusingato! La mancanza della cravatta gli è costata i periodici rimproveri della Nilde Iotti, che ci facevano molto divertire: come avrebbe potuto metterla? gli sarebbe arrivata al petto! Ricordo che raccoglieva spesso i lunghi capelli in un codino, fermato con elastici colorati: anche questo non era molto consueto fra i deputati!
Abbiamo lavorato moltissimo, dovendo coprire tutto il lavoro parlamentare -che se fatto seriamente esige studio, preparazione- solo in otto, e senza uno staff dietro. Avevamo inoltre una serie di realtà che facevano riferimento a noi anche personalmente - per lui si trattava soprattutto di situazioni di fabbrica, di lavoratori - e anche singoli, persone che ci scrivevano per segnalarci delle situazioni nelle quali occorreva intervenire politicamente: non potevamo sottrarci a queste cose, non per motivi elettorali, ma perchè ci sentivamo legati a un mandato preciso. Occorreva poi la presenza in aula, e diversamente dagli altri gruppi, dove erano la metà di mille, noi non mancavamo mai quando c'era da discutere e da votare. Così ci facevamo la settimana a Roma, e spesso al sabato c'erano le iniziative delle federazioni, dove il partito mandava più volentieri noi: non tanto per fare sfoggio di parlamentari quanto perchè, potendo viaggiare gratis, non c'era da rimborsare il costo dei biglietti. Io all'inizio avevo timore, conoscendo bene Luigi, che non avrebbe resistito in quell'ambiente che, devo dire, non è dei migliori. Invece lui c'è sempre stato e credo che questo gli sia costato un gran sforzo su se stesso per non sbottare, per vincere il fastidio di quell'ambiente di politici di mestiere, quel Transatlantico dove tutti camminavano e camminavano ...
E' vero. Lui detestava quell'atmosfera di aria fritta, i dibattiti farraginosi e inutili perchè le sedi decisionali sono altrove, lontane dal Parlamento, i giochi già fatti. Non perdeva però occasione di sfruttare i pochi spazi disponibili ad un parlamentare di opposizione: il lavoro di commissione, per la possibilità di attingere dati, talvolta di incidere; le interrogazioni, più che per le risposte del governo, che tardano mesi e di solito dicono poco, perchè permettono di portare i problemi a conoscenza del pubblico e di aggirare il silenzio-stampa; gli incontri con le delegazioni, per disintossicarsi dall'aria pesante dell'aula e parlare con gente vera di problemi veri. Continuò a seguire le situazioni di lavoro nelle quali era coinvolto, come l'Alfa.
Ci fu la famosa "Filosofiat" -la contestazione della marcia su Milano degli Agnelli- che ebbe inizio una sera del novembre 1987 in una piazza Duomo stracolma per manifestare solidarietà ai licenziati dell'Alfa, da poco acquisita da Fiat. Anima politica della serata, Luigi, neoeletto di Dp, insieme ai compagni della fabbrica e agli artisti di sempre: Paolo Rossi, Dario Fo, Enzo Iannacci, Fabio Treves; mentre in un Palatrussardi addobbatissimo la Fiat presentava la nuova vettura Alfa, col supporto di uomini di spettacolo attratti dal fascino dei vincenti: due Milano incomunicabili.
Arnaldo ricorda invece, di quel periodo, il supporto dato da Cip, insieme ai compagni di Genova, alle lotte dei portuali. Aveva compreso l'importanza di quella lotta per l'autogestione operaia e contro la privatizzazione delle attività marittime.
È stato molto apprezzato dai portuali. Insieme a loro ha fatto un importante lavoro di documentazione e controinformazione sui progetti governativi per la portualità che è sfociato in un convegno, al quale è intervenuto. Si è impegnato a far muovere la federazione di Genova in modo accorto, per dare una mano ai portuali non solo a parole, ma sul terreno concreto dello scontro, che ha portato anche sul piano parlamentare.
Nell'estate del 1988 è intervenuto in appoggio ai lavoratori della Saipem, in particolare del Perro Negro 2, una piattaforma per la trivellazione al largo di Ravenna, occupata dai lavoratori che ponevano problemi sul piano sindacale, e della poca limpidezza della gestione, da parte della Saipem, di una serie di problemi: appalti e subappalti, spostamenti finanziari, sicurezza sul lavoro.
Il consiglio dei delegati del Perro Negro organizzò un convegno sulla piattaforma occupata, che venne disertato dal sindacato ufficiale, al quale parteciparono Anna Donati per i Verdi e Cip per DP. In quel bellissimo intervento in mezzo al mare Luigi denunciò la politica di privatizzazione selvaggia delle partecipazioni statali, il risanamento dell'Eni scaricato interamente sulla pelle dei lavoratori italiani e stranieri a prezzo di licenziamenti ed insostenibili condizioni di lavoro, e sul denaro pubblico; la vendita di barche ad Ortona coi marittimi incorporati ('un nuovo mercato degli schiavi'), la politica energetica inquinante e fallimentare basata sul petrolio e sul carbone comperato dal Sudafrica. E ancora, le connivenze dell'Agip coi mafiosi in Sicilia, gli affari dell'Eni con Gelli in Argentina; per poi indicare, al solito, delle strade concretamente percorribili per salvaguardare l'occupazione, la salute dei lavoratori e l'ambiente: la riconversione della chimica di base, nuove politiche energetiche basate sul metano e la geotermia.
In quel periodo Cip era infaticabile: andò a Caorso, a Montalto di Castro, alla Farmoplant, ovunque i compagni lo chiamassero, nei limiti del possibile e oltre, perchè la salute cominciava a dargli problemi. Lo chiamavano nelle situazioni più difficili, nelle fabbriche occupate quando c'era pericolo di un intervento della polizia. Si prese diverse denuncie: per diffamazione, per blocco stradale, una per invasione di stabilimento (se non ricordo male, dalla Fiat).
Causa sfratto, ci eravamo nel frattempo trasferiti a Cremona. Anche qui, Luigi animò diverse iniziative di DP. Una di esse, insieme ai compagni di Autonomia, fu la lotta contro la costruzione della "Arvedi due", una mega-acciaieria di seconda fusione altamente inquinante. Per il contributo di Cip, quella che sarebbe stata una delle tante lotte di sapore locale acquistò un impatto diverso. Si documentò, oltre al grosso danno ambientale dell'impianto per la ricaduta di metalli pesanti attraverso polveri e fumi, il suo costo in termini di spesa pubblica e di occupazione: la licenza ad Arvedi aveva come contropartita la chiusura dell'acciaieria di Bagnoli, modernissima e costata centinaia di miliardi, che faceva la stessa produzione di coils in acciaio. Cremona è una città semiaddormentata, dove il cavalier Arvedi, potente satellite di Agnelli, la fa un po' da padrone delle ferriere: la sua faccia soddisfatta dell' "uomo fatto da sè" compare in tutte le salse, a cominciare dalla stampa locale di sua proprietà, vuoi davanti a un campo sportivo, vuoi all'organo nuovo di una parrocchia acquistato grazie a qualche briciola del suo denaro. L'insolito risveglio di coscienze preoccupò il cavaliere che, attraverso un suo uomo, tentò di avvicinare Luigi proponendogli un incontro a quattr'occhi. "Dica al cavaliere che mi venga a rispondere in assemblea, in privato dò appuntamento solo alle belle donne", rispose lui lasciando sconcertato l'interlocutore. A Cremona quasi tutti sono educati, avvezzi alle cosiddette buone maniere e all'obbedienza verso i potenti, sicchè queste cose fanno scalpore. Il risultato di tutto ciò fu una denuncia per diffusione di notizie false e tendenziose e disturbo all'ordine pubblico, diretta anche ad alcuni di noi, che Luigi si accollò per intero andando ad autodenunciarsi come l'estensore del materiale di propaganda che avevamo diffuso. Sempre a Cremona Cip si prese una denuncia persino per un'interrogazione parlamentare, che sollevava il problema di ingiustificati esborsi di denaro chiesti da una struttura ospedaliera ai degenti, per servizi illegalmente appaltati ai privati ma di competenza dello Stato. La denuncia, che proveniva dallo staff dell'Usl, appena cessato il mandato parlamentare venne accolta dal procuratore della Repubblica, che lo rinviò a giudizio: caso unico nella storia del nostro paese e pare di tutta l'Europa occidentale dove, per norma costituzionale, gli atti parlamentari sono sottratti al sindacato della magistratura. Il "distratto" procuratore se ne avvide quando ormai la gente, intimorita, si era rassegnata a pagare.
Per tutta la durata della legislatura Luigi partecipò ai lavori della commissione bilancio. Preparò fra l'altro una relazione di minoranza alla finanziaria '88-89, nella quale documentava la redistribuzione di ricchezza verso le imprese e i percettori di rendite, il bluff dell'offensiva contro evasori ed elusori, il costo sociale della manovra per i lavoratori e le categorie disagiate, l'aggravamento dei deficit strutturali, dei problemi della produzione, dei trasporti, dell'agricoltura. Sperava che il partito avrebbe utilizzato questo grosso lavoro, costato mesi, per colmare il vuoto di proposta politica che permaneva, nonostante l'attivismo e la presenza nelle lotte. Non andò così: "troppo difficile per la comprensione dei compagni", gli fece sapere la segreteria nazionale. Non ci ricavarono neppure un volantino. Come si infuriò! tornato a casa, senza dire una parola, si mise a distruggere carta dopo carta due o tre dei suoi "mucchietti"!
Forse fu quella l'ultima volta che Luigi si arrabbiò con DP. Non abbandonò il partito -che era d'altronde oramai giunto al capolinea- ma perse ogni residua fiducia. Nè, più tardi, aderì a Rifondazione comunista, come invece gran parte dei compagni rimasti in DP dopo la scissione degli Arcobaleno: ci vedeva una continuazione del PCI, la preponderanza dell'apparato, la mancanza di una proposta politica adeguata ai tempi e di una revisione degli errori della sinistra, persa nella "adorazione dello stato" e delle sue istituzioni.
Non tutti i compagni hanno compreso questo passaggio di Luigi: abituati al "Cip missionario" con un ruolo sempre e comunque propositivo anche nell'organizzazione, non hanno capito il Cip sfiduciato e ipercritico degli ultimi anni.
"Un intellettuale, un parlamentare può anche fare a meno del partito, un operaio no -dice per esempio Guido Visco- per gli operai il partito è una necessità. Se è sgangherato bisogna darsi da fare per raddrizzarlo, da soli non si fa nulla". Altri invece lo hanno capito, e visto nella sua parabola politica una dimostrazione della sua coerenza. Così Luigi Vinci, che ha condiviso con lui l'esperienza di AO, poi di DP e che ha fatto una scelta diversa, per Rifondazione comunista.
Cip non riusciva più a coabitare con la debole autoidentificazione di DP, con l'introiezione delle sconfitte e delle idee avversarie. C'era in lui una tensione continua fra il bisogno assoluto di fedeltà alle proprie idee, il legame fortissimo che ha sempre mantenuto coi lavoratori, quello che secondo lui si sarebbe dovuto fare nel rapporto con la gente e nelle lotte, e le condizioni sempre più anguste e difficili in cui ha operato la nuova sinistra dalla fine anni settanta in avanti, il calo di militanza, il calo anche culturale. La caratteristica più positiva e significativa di Avanguardia operaia, nella quale Cip si era ritrovato in pieno, è stata il ruolo forte, effettivamente dirigente nell'organizzazione, dei lavoratori nel loro complesso. In AO, grazie soprattutto al rapporto simbiotico coi CUB, la componente operaia pesava, partecipava alla determinazione degli orientamenti politici su tutto, imponendo continuamente un rapporto stretto con la realtà dei lavoratori, degli sfruttati, della gente che non conta niente. Ciò significava anche comportamenti nel gruppo dirigente, nei rapporti coi compagni, improntati ad un'alta moralità politica; senza mediazioni, pastrocchi e derive in direzione dei ceti politici di stato. Questa caratteristica classista reale e non a chiacchiere, democratica reale e non a chiacchiere, non si è ripetuta in DP e neppure in Rifondazione. Io credo che di questa mancanza abbia sofferto Cip, molto più di altri per le sue origini e per il suo carattere. Credo che questa sia stata la causa delle sue crescenti difficoltà nel partito, che si sono accentuate negli ultimi anni.
A metà legislatura venne istituita la Commissione parlamentare stragi, nella quale Luigi si inserì dall'inizio e fu attivissimo. Non era solo l'amore di giustizia a fargli cercare le verità celate dietro tanti delitti impuniti, ma anche la consapevolezza, maturata in vent'anni di ricerca politica, dell'esistenza di un potere reale, ben più forte di quello emergente dai meccanismi della democrazia parlamentare: un potere oligarchico, arrogante, intrecciato a quello criminale come a quello statuale, operante senza alcun vincolo, che era stato in grado di assestare una sconfitta decisiva al movimento operaio. Era la coscenza dell'inutilità di tante battaglie della sinistra, tutte giocate sul terreno istituzionale e formale e della necessità per contro di studiare questo potere reale, per capirne i piani e le alleanze e quindi saperlo combattere, per aprire nuovi spazi di azione politica. Nell'attività compiuta per la Commissione Luigi trovò ulteriori conferme alle ipotesi della sinistra rivoluzionaria: da tutta la vicenda Stay behind alle strutture di militari e civili reclutati a migliaia in funzione anticomunista e contro i movimenti, dirette dai capi dei servizi e ben note alle massime cariche dello stato, agli intrecci tra poteri forti -massoneria, mafia, istituzioni economiche- stato e partiti. Fu la fedeltà assoluta alle sue chiavi di lettura del potere il motivo più forte della impossibilità, per Cip, di aderire ad un partito che riteneva ancora stalinista e incapace di superare la cultura filoistituzionale.
Umberto Gay, forse il più amato dei suoi ex "discepoli", giornalista di Radio popolare e oggi consigliere comunale di Rifondazione, dice di aver imparato da Cip soprattutto una cosa: il metodo che ispirava quella ricerca sul potere.
...Non si vive giorno per giorno la politica, l'analisi, la lotta. Il poter contrapporre un proprio sapere a quello che ti propinano è una cosa che si costruisce giorno più giorno più giorno, e il frutto magari lo afferri solo dopo anni e allora ti ritorna un risultato, un vantaggio, la capacità di muovere il meccanismo giusto dopo del tempo. Questo vuol dire studiare sulle carte e sugli uomini, essere intellettualmente spregiudicati. A me raccontano degli onorevoli anche molto lontani politicamente da Luigi Cipriani cosa fosse questo omone un po' 'bù bù bù' in Commissione stragi, che lui frequentava moltissimo, riuscendo a scovare cose perse da anni, a scandagliare in un mare di fumo e depistaggi e pescare la cosa giusta: come 'pescò' dodici anni più tardi, che il giorno dell'agguato di via Fani, mentre i brigatisti sparavano, c'era un colonnello del Sismi fermo a un angolo, che guardava. Questo non è uno scoop giornalistico, è andare a scovare quella formichina di notizia in un mare di carte e di elementi,non solo perchè sei bravo e intelligente, ma perchè hai fin dall'inizio una chiave di lettura corretta.
Alla radio lo sentivamo spessissimo, non solo per mandarlo in onda ma perchè lui era diventato per noi uno che ci apriva le cassaforti della comprensione. Quando lui è morto, il modo migliore per ricordarlo mi è sembrato quello di mandare in onda un'intervista che ci rilasciò a metà degli anni ottanta sul Banco Ambrosiano. Si sa come è finito quel processo: ebbene lui già allora faceva un'analisi articolata, affermando cose a quel tempo assolutamente clamorose, come la presenza di De Benedetti con un certo tipo di ruolo al di là di quello che si sapeva allora sullo Ior. E non gli chiudevi il microfono solo perchè arrivava a dirle dopo un ragionamento fatto di passaggi logici, concatenati fra loro da dati di fatto, non ideologici, dimostrati e poi effettivamente verificati.
Ricordo ancora un altro fatto lontano nel tempo e molto importante nella mia vita:quel fatto si chiama Fausto e Iaio. A quel tempo abbiamo creato un gruppo di lavoro e a un certo punto ci fermammo, non sapevamo in che direzione andare. Solo dopo diversi anni è stato possibile pubblicare un dossier, dove c'è il nome di uno degli assassini: sotto pseudonimo, ma noi sappiamo chi è, e la magistratura anche. Cosa c'entra Luigi Cipriani? Ebbene, un giorno in via Vetere ci siamo incontrati, lui mi ha fermato e mi ha detto: "ma ti pare possibile che sia solo un problema di fascistelli di Milano? ti pare possibile che se fosse stato così non li avrebbero presi dopo ventiquattr'ore?" È vero, il fatto era clamoroso e per polizia e magistratura sarebbe stato un bel colpo, si era alla fine degli anni Settanta e gli opposti estremismi erano finiti. Perchè non ragionate, mi disse, perchè non capite che sulla pelle di questi due, che probabilmente sono stati ammazzati come simbolo, o per un fatto marginale, si sono catalizzate altre cose che probabilmente riguardano poco anche Milano. Ebbene il fatto è andato davvero così, riguardava in parte questa città ma non tanto i fascisti in sè, quanto il mercato di spaccio dell'eroina che in quel momento era in mano a ex fascisti e malavitosi dichiaratamente colorati di destra; era un rapporto che riguardava una fetta dei Nar impazzita di Roma con cui questi erano in contatto, per traffici ed azione politica. Lui aveva ragione, non si era occupato a fondo di quel problema, ma sapeva, perchè la sua chiave di lettura era quella vincente.
Ora non può uno da solo, e soltanto per forza di volontà o perchè beato o santo avere le intuizioni giuste, se non ha un'incessante tensione ideale, una tensione che non è diminuita mai dal '69 in avanti, e soprattutto se non ha quelle dieci-quindici fondamentali chiavi di lettura, che quelle sono e quelle rimangono. Sì perchè sfido chiunque a dimostrare che le analisi che facevamo all'inizio degli anni Settanta -magari allora erano ancora rozze e artigianali, ma erano vere- su cos'è in realtà il potere, non siano confermate dai fatti. Mai come in questi ultimi anni possiamo dire che avevamo ragione. Gladio e affini dimostrano oggi che i poteri reali che ci comandano non sono quelli che appaiono, a seconda delle fasi questi poteri possono essere più o meno occulti e incappucciati, o sono semplicemente i grandi poteri economici. La P2 è stato un banco di prova determinante per questo metodo di studio e di analisi politica, non giornalistica, che Luigi Cipriani si era costruito nel tempo. Quel Luigi Cipriani che la prima volta che lo vidi (era il 31 ottobre '72, una manifestazione in piazza Duomo dove il servizio d'ordine del sindacato e del MS cercarono d'impedire ai compagni di AO di entrare in piazza, ndr) spostava da solo due file del MS non era evidentemente lo stesso che mi ha fatto quell'analisi sul Banco ambrosiano: o era lo stesso con qualcosa in più, perchè si era costruito. Lui, il giorno dopo che vennero resi pubblici gli elenchi della P2 ci fece un' intervista clamorosa in cui ci disse: sono tarocchi, non nel senso che quei nomi non sono veri, ma nel senso che sono quelli che hanno fatto trovare, non sono loro la destabilizzazione in Italia. Sicuramente Gelli -me la ricordo questa frase- è una cerniera con qualcos'altro. Tina Anselmi ha concluso i lavori della Commissione P2, dopo anni e anni e libroni alti così, dicendo: manca la P1, la piramide superiore. E noi sappiamo bene che questa piramide esiste. E alla fine delle grandi vicende degli ultimi quindici anni non è un caso che si incontrino sempre gli stessi ingranaggi, le stesse forze: a volte cambiano nome, a volte no.
Allora quello che ci insegna lui è di avere sempre la forza e la spinta di leggere, ricercare, sottolineare, mettere da parte, raccogliere dati, elaborarli e avere le chiavi di lettura giuste per interpretarli. Questa è l'importanza di alcune persone come lui, che producono un sapere che è ben di più della controinformazione. È un sapere non episodico, che si sviluppa, che ha una sua linea conduttrice.
Alcuni compagni che hanno dato vita a un gruppo di studio su Luigi, hanno evidenziato - leggo dal loro documento- il presupposto critico ad ogni manifestazione politica, sottolineando il termine critico. Io avrei messo in neretto anche ogni. Ogni, anche a casa propria! anche a sinistra. Tanti hanno detto che Luigi aveva un brutto carattere, che era ipercritico e perennemente insoddisfatto. Ma se brutto carattere vuol dire manifestare con assoluta sincerità la propria insoddisfazione verso non solo il nemico, o l'esistente, ma anche verso i propri fratelli, le persone più vicine che si comportano in modo che tu non ritieni adeguato ai problemi del mondo, della gente, degli oppressi, mi mancherà tanto quel suo brutto carattere.
Quel "brutto carattere", nel senso che ha appena spiegato Umberto è costato a Luigi, specie negli ultimi anni, l'isolamento anche nella sua area politica. Non che i compagni avessero smesso tutti di volergli bene, anzi. Credo si fosse creato intorno a lui una sorta di cordone sanitario, di difesa, per una legge direi fisiologica, propria di ogni apparato. Non credeva più al partito, poneva continuamente problemi, voleva si discutesse di cose che non fruttano nè pubblicità sui giornali nè risultati elettorali..
Nell'88 conobbe a una festa di D.P. un gruppo di compagni che facevano riferimento all'Istituto di studi e ricerche Leonida Casali (poi Fondazione Leonida Casali), fra i quali Giuseppe Morara, una affascinante figura di intellettuale- operaio uscito dal Pci in seguito a dissensi con la federazione e che, per un singolare destino, è scomparso qualche mese dopo Luigi.
Così ricordano Cip i compagni della fondazione Casali:
Abbiamo conosciuto Luigi Cipriani ad una festa di Democrazia proletaria a Ravenna nel 1988. Da quel momento abbiamo avuto con lui un rapporto costante, di discussione soprattutto sulla interpretazione dei gravi fatti di strage cui Cipriani dedicava la sua attività parlamentare e il Casali il suo notevole archivio e le ricerche dei suoi collaboratori. Quello che ci ha colpiti di lui era il carattere aperto, battagliero, mai presuntuoso, il suo impegno che si appaiavano con il quasi identico ritratto di Giuseppe Morara.
Fra i due compagni si era creato un rapporto fraterno, che si è esteso agli altri soci del Casali, tanto che per noi Luigi era uno dei nostri. Scambiavamo con lui continuamente materiali, suggerimenti, interrogativi ed il Casali conserva tanta parte dei suoi interventi, interrogazioni, appunti. Abbiamo seguito insieme le vicende terribili che hanno insanguinato il nostro paese: dalla vicenda Moro alla strage di Ustica, così legata a quella di Bologna, dal caso Cirillo alla banda della Magliana, dai depistaggi dei servizi di Stato alla massoneria coperta e segreta. Luigi come noi era cosciente che queste vicende si riconducono, in modi diversi, a disegni tracciati dietro le quinte, come il Piano di rinascita democratica della P2, per creare condizioni di stabilizzazione di una società moderata, dove il capitale prende la sua rivincita sulle fasce operaie...Con Luigi e Giuseppe abbiamo perso due collaboratori che non si possono sostituire".
Nello stesso periodo Luigi ebbe un altro amico eccentrico rispetto alle frequentazioni consuete: il cremonese Emanuele Bettini, impiegato di banca per vivere, ma anche giornalista e storico, appassionato di letteratura e poesia, che Luigi conobbe a un dibattito su Gladio. Era stato Bettini a raccogliere per primo le dichiarazioni del gladiatore Ravasio e anche con lui Luigi ebbe scambi di opinioni molto utili, al di là delle diversità ideologiche.
Su tutto quello che faceva Cip, persino sul suo nome, il silenzio-stampa era quasi totale. Nessun canale televisivo l'ha mai ospitato, capitava anzi che le sue intuizioni venissero attribuite ad altri: come se i direttori di testata si fossero accordati per censurarlo.
Lui non se ne curava granchè; ebbe diverse minacce anonime, delle quali si curò ancor meno. Rischiare sembrava divertirlo: vuol dire che do fastidio per davvero, diceva. Era di un'audacia assoluta. Quando in Commissione si cominciò a discutere -per l'insistenza sua e di altri parlamentari di opposizione- del caso Moro, ebbe un incidente un po' sospetto: fu investito, nei pressi di Montecitorio, da due giovani un moto che non si fermarono a soccorrerlo. Se la cavò con una frattura a una gamba e un'ingessatura (avrebbe però potuto finire peggio, se non avesse avuto la forza di spingere di lato la moto in corsa) che lo tenne lontano da Roma per quasi due mesi. A me, ai compagni che si preoccuparono della possibilità di un attentato rispondeva minimizzando "a Roma c'è traffico"; di prendere qualche precauzione, magari solo rafforzare la serratura di casa, non voleva neanche sentir parlare. La sua assenza da Roma fu invece usata da Enzo Biagi in una trasmissione televisiva che lo segnalava per assenteismo: guarda caso quella cosiddetta statistica era stata fatta -oltre che soltanto sulle presenze in aula, che sono la parte minore del lavoro parlamentare- proprio in quei mesi: alla sua richiesta di smentita venne dato uno spazio ridicolo, che scomparve del tutto nella replica della trasmissione. Luigi liquidò la cosa con un "povero servo" e non se ne curò più.
Cip non aveva una buona opinione della maggior parte dei giornalisti, anche di sinistra. Uno dei pochissimi che scampava dalle strali era Paolo Cucchiarelli, che seguiva per l'Ansa l'attività della Commissione stragi:
Ho rivisto con un po' di amarezza le rassegne stampa della Commissione stragi della X Legislatura: vi si parla assai poco di Luigi, della sua attività e delle sue scoperte, perchè Cipriani ha rappresentato, con altri suoi colleghi (pochini: quattro o cinque) il tipo di parlamentare più adatto ad una Commissione di inchiesta particolare come questa. Non si fidava e leggeva le carte, non si accontentava dei riassuntini degli uffici o dei fogli di accompagno dei giudici che scaricavano a San Macuto casse e casse di carte (la pubblicazione del materiale della Commissione, un vero e proprio archivio storico della nostra Italia, occuperebbe seicento volumi tipo Commissione P2, cioè di mille pagine l'uno). Scavava, collegava, intuiva. Quando cominciò a fare le prime domande, si indagava allora sul caso Cirillo, notammo insieme agli altri colleghi che spesso era un metro avanti agli altri: si era letto tutto; si era preparato; sapeva dove andare a parare.
Poi cominciò Ustica: tutti eravamo ben digiuni di plot, tracciati radar, generali a varie strisce, Sios ed altro. Si capì subito però che volevano raccontarci un mare di bugie. Fu per la sua insistenza e quella di Marco Boato che si arrivò alla richiesta di arresto per Zeno Tascio, interrogato tre volte, che non riusciva a ricordare neppure i compiti, le attività ("ci occupiamo di trasmissioni, ponti radio ecc.") del servizio segreto d'Arma che pure aveva guidato durante il 1980. Cipriani divenne subito una delle fonti più qualificate del drappello di giornalisti che seguivano i lavori in maniera costante. Aveva cercato contatti con ambienti militari per farsi aiutare nella decifrazione delle carte che spesso erano solo una sequenza numerica stampata da computer: solo carta per quasi tutti. Fu tra i più strenui a sostenere, puntare sulla pista francese, intrecciata alla situazione libica. C'è un suo dossier del 1990 pieno di fatti inediti, di riscontri su amicizie, collegamenti, strane presenze che si ripetono. Interveniva quasi sempre all'ultimo, nelle audizioni, ed i colleghi dei giornali spesso mi chiedevano di poter richiamare in sala stampa per sapere se "Cipriani aveva detto qualcosa di nuovo". Su Ustica fu attento al quadro d'insieme: cercò nei nastri, nei dati tecnici, nella loro "congruenza" con i fatti, i tempi, le realtà, ma anche puntò molto all'insieme.
Fu lui, ora si può dire apertamente, a ricopiare i tracciati del radar di Poggio Ballone che nessuno aveva mai pensato di mettere a riscontro con quelli di Marsala e Licola (quelli, per intenderci, che hanno il famoso "buco" in concomitanza con l'incidente), accorgendosi di una cosa elementare: facendo un riscontro logico fra rotta, tempi e tracciati si notava una sfasatura inspiegabile sulla rotta degli aerei che scendevano e salivano il Tirreno: come se qualcuno li avesse ad un certo punto strattonati da una parte, "tirandoli" di lato: grande scalpore, inchieste, tonnellate di articoli, Samarcanda eccetera. Era stato Luigi insieme a bravi colleghi (e mi mangio ancora le mani, a distanza di tempo, per essere stato assente quando se ne parlò in Aula) ad accorgersi di questo.
Le sue interrogazioni erano sempre di prima mano: fece scalpore quando, citando solo le velocità dei velivoli (cosa banale a cui nessuno aveva pensato) dimostrò che in volo c'erano aerei militari e non civili nel cielo di Ustica prima e dopo l'incidente. Oppure quando, con una serie incalzante di domande, fece traballare le certezze di chi sosteneva l'assoluta ovvietà del Mig libico in Sila per il 18 luglio del 1980 e non, magari, qualche settimana prima. Ricordo uno scontro, durissimo, con il Capo di Stato maggiore dell'Esercito che si può leggere sui verbali delle audizioni.
Pian piano diventammo amici (manteneva però sempre un pizzico di diffidenza) soprattutto quando si indagò su piazza Fontana, si interrogarono uomini "storici" come Belmonte, Musumeci, Labruna. Uscì fuori subito l'uomo che aveva partecipato alla fondazione di Democrazia proletaria, l'operaio della Pirelli: domande dirette, brutali, mai elusive o allusive. Fece sudare più di una volta il presidente Gualtieri ed ancor più chi doveva rispondere alle sue domande. Progressivamente però, notai il crescere di una stanchezza, di un passo sempre più incerto e lento che rispecchiava il suo personale stato d'animo.
Gladio non fu mai visto da Luigi Cipriani come il vaso di Pandora delle stragi, il retrobottega della strategia della tensione ma come uno degli elementi, quello più strutturale, di una realtà politica ben più allarmante e oscura. Fu lui a far avere alla Commissione il Manuale degli addestratori di Gladio avuto da Pierluigi Ravasio che dimostrava la natura dell'addestramento con varianti di "insorgenza e controinsorgenza", ma dove si spiegava anche come sistemare l'esplosivo nelle gallerie per aumentarne l'effetto distruttivo o come porre il plastico alla base dei ponti o dei tralicci Enel: una lettura indubbiamente interessante. Gladio ci ha appassionato tutti dal momento dell'arrivo del primo documento di Andreotti, nell'ottobre del 1990, intitolato Il cosiddetto Sid parallelo e l'operazione Gladio. Quel richiamo al Sid parallelo, entrato ormai nei libri aveva avuto un effetto emotivo fortissimo per molti di noi giornalisti.
Furono settimane intense. Interrogatori, documenti, carte, richieste ma ben presto Cipriani mi disse, al pari di altri, che "non era questo il luogo in cui cercare la verità". Si è agito - ricordo il succo di una conversazione - con il metodo della cipolla: tante realtà, unitarie nell'insieme, uniche e solitarie nella loro azione, come i diversi veli di una cipolla, appunto.
Gladio lo interessò, ma ancor più lo attirarono, specie negli ultimi tempi, le confessioni di un estremista nero, l'unico ad essere stato condannato per una strage: Peteano. Andò a trovare in carcere Vinciguerra; insistette affinchè la Commissione acquisisse agli atti un suo monumentale memoriale nel quale sono redatte, in dettaglio, le strumentalizzazioni che i servizi, lo stato, fecero della destra durante gli anni caldi: una rilettura intrigante e disarmata ma anche molto, molto istruttiva per chi aveva speso i suoi anni migliori in quei sogni, da una parte all'altra della barricata. Vinciguerra, con la forza di non aver nulla da difendere, lo colpì. "Racconta molte balle - mi disse - non è uno stinco di santo, ma anche molte verità". La Commissione incontrò Vinciguerra e verbalizzò il suo racconto.
Ma il suo chiodo fisso era il caso Moro: fu ancora una volta lui ad accorgersi di una "coincidenza" incredibile sulla base di alcune rivelazioni che raccolse. La mattina del rapimento a via Fani, o nelle immediate vicinanze, c'era un addestratore capo di Gladio, quel colonnello Guglielmi, tra i responsabili della VII divisione del Sismi, che dovendo andare a pranzo -questo ha detto al giudice- per le 13 da un suo amico da quelle parti, cominciò a gironzolare in zona già dalle 8-9 del mattino...
Cipriani mi aveva parlato, dopo le elezioni, quando ci siamo visti per l'ultima volta, della sua intenzione di rileggere tutte le carte su Moro accumulate e della sua intenzione di approfittare di questo periodo per scrivere un volume su questa vicenda. Nei primissimi giorni di settembre gli ho telefonato, non era la prima volta, a Cremona: gli ho chiesto del libro, della salute, una data che non ricordavo ed un particolare su Vinciguerra. Tutte risposte avute. Mi ha parlato degli occhi, dei rimproveri avuti dai dottori per aver trascurato la malattia; della voglia di rivedere tutta la storia di Moro dato che "ora si può capire molto di più". Mi disse una cosa che mi colpì molto: "sei l'unico giornalista che mi ha richiamato dopo che ho lasciato..grazie". Era la prima volta che Luigi Cipriani, dopo cinque anni di conoscenza, si lasciava andare fino in fondo: non si "tratteneva". Mi ha fatto un grande piacere aver fatto quella telefonata. Mi dispiace immensamente di non poterne più fare. Di interrompere il dialogo con quello che i giornalisti chiamavano affettuosamente il "Carlo Marx di San Macuto".
In quegli stessi giorni, Luigi stava facendo i suoi nuovi progetti: scrivere un libro sulla vicenda Moro - sarebbe stato il suo primo libro, quando era "militante" non aveva molto tempo per scrivere - poi un secondo sugli intrecci massoneria-stato e, sulla base della fortuna di quei volumi costituire a Milano un centro studi che approfondisse la ricerca sul potere. Progetti anch'essi impegnativi ma da portare avanti senza fretta, che gli consentivano finalmente di pensare anche un po' a se stesso. Si era rimesso a dipingere.
La tranquillità non rientrava nel suo karma. Se n'è andato in due minuti per un infarto improvviso, stroncante. Era il 5 settembre 1992.